Arnold Mario Dall'O

Untitled

19.05 –
08.07.2023

Nel lavoro di Arnold Dall’O si addensano idee e tecniche in una totale libertà d’espressione. Non è certamente difficile rintracciare i segni distintivi di una poetica che si articola verso una convivenza tra lavori plastici e una pittura fortemente concettuale. Non è un artista legato alla ripetizione e allo stile, pur mantenendo una riconoscibilità esemplare. La sua consapevolezza espressiva lo porta anche a essere assolutamente libero non solo di lavorare sulle immagini spesso recuperate dalla rete, ma anche di rendere protagonisti in grandi quadri, oggetti di tardo design, lampadari, furniture che sembrano estratti da cataloghi e riviste ormai dimenticate. Nel seguire il suo lavoro dagli anni Novanta, ho sempre pensato che questa libertà sia basata sulla certezza di usare la tecnica con un valore concettuale che si pone accanto al soggetto dell’opera, che ne sia supporto ideale e interazione semantica.


La tecnica della pittura distribuita a puntini, di una sorta di pointillisme contemporaneo, esprime il concetto di un tempo di realizzazione lungo, di attesa, come se l’immagine fosse una sorta di apparizione, qualcosa che accade come un evento, che si deposita lentamente sulla superficie pittorica. Questo è particolarmente significativo perché Dall’O recupera la dimensione del mistero di come nascono le immagini e di cosa possono significare. Sottolineo il “possono”, quindi una dimensione potenziale, piuttosto che una dimensione costrittiva, obbligatoria, ideologica: le immagini non “devono” significare per forza qualcosa. Nel suo lavoro, e attraverso una tecnica che non si attarda nella descrittività dei particolari o nel creare lavori che siano sovrapponibili alla realtà, l’immagine o la forma sembrano apparire dal nulla. Suggeriscono l’idea di provenire da una dimensione altra, come se fosse un messaggio lanciato nel tempo e che trova un’attualizzazione all’improvviso, quasi per caso. Questa sua capacità la conserva anche nei lavori installativi che sono più rari nel complesso della sua opera, ma che diventano una sorta di epitome di una concezione dell’arte aperta all’intuizione, all’emozione, ad una partecipazione del pubblico che va ben oltre lo shock visivo o la provocazione. I puntini che si aggrumano sui quadri formando lentamente delle immagini definite, aree, aperte all’ambiente, sono concettualmente vicini ad altre opere come le sfere che rotolano in perfetta autonomia sul pavimento della galleria, o in box o recinti in cui vengono raccolte e collocate. Hanno una vita propria, anche in questo caso non si sa da dove provengono, ci sono e basta. Si muovono spinte da un’energie interna, da qualcosa che non appare, ma che c’è. Questo diventa una vera e propria capacità di apparire ben oltre la soglia della percezione perché è il pensiero che deve andare oltre. Questo equilibrio tra il visibile e l’invisibile è una delle grandi intuizioni di Arnold Dall’O perché il suo lavoro non si svela mai completamente, rimane in un cono d’ombra costante oltre la pittura, oltre la scultura, in una dimensione concettuale che si appoggia comunque sempre sulla tecnica, perché l’arte non può essere solo una dichiarazione di belle intenzioni. Per questo l’arte di Arnold Dall’O sembra sempre in attesa di un titolo e nemmeno vuole chiudersi in definizioni di tipo linguistico o classificatorio. Il suo rapporto con il linguaggio verbale, anche quello critico, è bene stia in un rapporto di non consequenzialità, che entrambi scorrano in parallelo senza tentativi di traduzione. Al contrario di quanto affermato da Paul Klee “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”, Dall’O prova a decostruire ciò che è visibile, ad avvicinarlo a quella soglia di invisibilità che diventa un territorio in cui le emozioni, ideologie e storie personali, i condizionamenti e i comportamenti sociali, si mescolano in quel mistero che ci portiamo dentro e che chiamiamo “memoria”. Restituisce all’arte quello che le era stato sottratto. Per ricordare un tema sostenuto da un grande artista come Gino de Dominicis, non vi sono parole, segni, numeri, ma solo immagini. L’origine è un’immagine, qualcosa che non aveva un prima, ma ha avuto un dopo che dura fino ad oggi nella scala del tempo. Nel 1970 nella “Lettera sull’Immortalità” scrisse che “io penso che le cose non esistono…”, solo l’immortalità le può rendere vere, ma questa può avvenire solo all’interno dell’Arte, del suo universo creativo. Riportare tutto all’arte, smaterializzare per conservare attraverso una nuova creazione, in fondo è questa la missione di ogni artista. O dovrebbe esserlo. Arnold Dall’O segue una propria linea che non è rettilinea come un bisogno o una strada già tracciata. È aperta al “caso intelligente” che domina la storia dell’arte del Novecento e che ha inizio nel 1897 con il poema “Un colpo di dadi non abolirà mai il caso” di Stephane Mallarmé che annuncia già il Novecento e le sue rivoluzioni. L’arte non ha necessità perché non sarebbe libera, un quadro non dipende dal soggetto perché altrimenti sarebbe fotografia o comunicazione, non dipende nemmeno dalla coerenza perché gli artisti non hanno preso i voti religiosi e non devono essere vincolati da ideologie. È una storia da sfatare anche quella che l’arte abbia una missione da compiere. Dall’O ha realizzato anche dei lavori pittorici in cui l’aleatorio compare come un elemento determinante, il suo puntinismo ricorda il primo atomismo greco quello di Democrito, le particelle si avvicinano o allontanano per simpatia o repulsione, come accade tra gli esseri umani. La confusione genera entropia, l’arte dimostra che tutto questo è evitabile. L’invisibile di Arnold Dall’O è fondato sulla fiducia che tutto questo possa accadere e che la realtà dell’arte è sempre qualcosa che si astrae dalla verità perché non ne sopporta il vincolo. L’origine è un punto. La storia una linea retta. Sta a noi decidere da che parte stare.

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